Gli oceani ricoprono più del 70% della superficie terrestre, per un totale di 1.4 miliardi di miliardi di tonnellate di acqua salata. Contribuiscono alla produzione di ossigeno, ospitano la maggior parte delle specie viventi sul pianeta e ci aiutano nella lotta al cambiamento climatico: assorbendo il 95% del calore causato dai gas serra e il 25% delle emissioni di CO2 legate ad attività antropiche.
Questo delicato equilibrio rischia di essere messo a repentaglio dall’inquinamento, in particolare dalla plastica. L’ONU definisce l’inquinamento della plastica il più pericoloso in assoluto poiché non solo inquina bensì uccide, impattando sull’ambiente, sugli animali e sugli uomini.
Ogni anno 12 milioni di tonnellate di plastica finiscono negli oceani di tutto il mondo, l’equivalente di un camion di spazzatura al minuto.
150 milioni di tonnellate di plastica sono già presenti negli oceani. Si stima che la plastica che galleggia o che troviamo nelle spiaggia sia solo l’1% di quello che è realmente sott’acqua. Sono stati trovati rifiuti nel punto più profondo conosciuto dei mari di tutto il mondo, 10.994 metri, nella Fossa delle Marianne, Oceano Pacifico.
La plastica costituisce l’80% dei rifiuti marini. La metà di questa è costituita da oggetti in plastica monouso, cioè progettati per essere utilizzati una sola volta e poi gettati via.

Ecco la classifica dei 10 oggetti monouso più trovati negli oceani:



Il resto della plastica presente in mare dipende dalle attività di pesca e acquacoltura sempre maggiormente in crescita e sempre più basate sull’uso di plastica di cui sono fatte corde, reti, esche, ami, lenze, trappole, galleggianti e boe.
Quando vengono abbandonate deliberatamente in mare per evitare i costi di smaltimento a terra o perse accidentalmente a causa di condizioni climatiche avverse, queste attrezzature concorrono al fenomeno del ghost fishing, cioè continuano a pescare, intrappolare, soffocare, ferire e uccidere gli animali marini per anni.
Nel 2009 il programma delle Nazioni Unite per l’ambiente ha stimato che 64 mila tonnellate di reti da pesca ed altri attrezzi vengano dispersi in mare ogni anno, un volume equivalente a 90 mila autobus a due piani.
Le vittime sono pesci, tartarughe, coralli, capodogli, delfini e squali, ma anche l’uomo, perché le reti e tutto il resto della plastica si degradano lentamente in acqua e rilasciano microplastiche che vengono poi ingerite da tutta la catena alimentare.
I 10 fiumi più inquinati al mondo sono responsabili dell’80% della plastica che arriva nei mari e negli oceani. La plastica e i rifiuti accumulati e trasportati da questi fiumi derivano da industrie petrolchimiche, chimiche, tessili, ittiche e centrali idroelettriche che scaricano nelle acque qualsiasi tipo di scarto. Ci sono però anche gli scarichi domestici a fare la loro parte: il riversamento di liquami, acque nere e rifiuti di ogni tipo avviene direttamente in acqua in tutti quei paesi privi di sistema fognario e di un sistema di raccolta differenziata.
Ecco la classifica dei 10 fiumi più inquinati al mondo:





La “Great Pacific Garbage Patch” è la più famosa ed estesa delle tante aree oceaniche dove si accumula la plastica a causa delle correnti oceaniche. Si trova fra la California e le Hawaii, non è visibile dallo spazio ma è solo visibile in minima parte se vi si naviga attraverso, ma non per questo la situazione è meno grave. Chi c’è stato, la descrive come una zuppa di microplastiche nella quale galleggiano grandi agglomerati di pezzi di plastica, che nasconde nelle sue profondità una quantità enorme di rifiuti. Lo studio commissionato da “The Ocean Clean UP” fornisce nuovi sorprendenti dati sulla sua composizione: il 46% dei grandi pezzi di plastica è costituito da reti da pesca e attrezzatura navale, la parte rimanente è formata da plastica di vario tipo portata dai fiumi e qui destinata a rimanerci fino a scomporsi in altrettante pericolose microplastiche.
Secondo il rapporto del WWF Italia 2018 “Mediterraneo in trappola”, il mar Mediterraneo è la sesta “isola” di plastica del mondo. Due isole di plastica sono nell’Oceano Pacifico, due nell’Antartico e una nell’Oceano Indiano. Nel Mediterraneo si concentra il 7% della microplastica globale, le concentrazioni qui supera quella della Great Pacific Garbage Patch di almeno quattro volte. Tanti sono i fattori che concorrono all’inquinamento delle sue acque, la posizione geografica in primis, visto che si tratta di un bacino semichiuso sul quale si affacciano tre continenti e nel quale sfociano alcuni dei fiumi più inquinanti al mondo. D’estate l’affluenza dei turisti può portare fino ad un aumento del 40% dei rifiuti.
Spesso sentiamo dire che il tempo di decomposizione della plastica va dai 450 ai 1000 anni. In realtà, la parola corretta sarebbe “frammentazione”, in quanto i polimeri si depolimerizzano e le molecole che prima formavano una catena di monomeri, si slegano l’una dall’altra e fluttuano singolarmente nelle acque o nell’ambiente in generale. Ciò non significa che questi frammenti non siano più inquinanti, in realtà è proprio il contrario. Lo sono ancora di più vista la difficoltà nel localizzarli ed eventualmente raccoglierli. Una volta finiti nel mare questi pezzettini si comportano come spugne. Assorbono infatti gli agenti chimici presenti in acqua, oltre che i disparati “odori del mare”. Questo fatto fa sì che molti animali li confondano per cibo e che li ingeriscano, rischiando così malattie e, a lungo andare, la morte. Le microplastiche e le nanoplastiche sono piccolissimi frammenti plastici con una grandezza che varia tra i 330 micrometri e i 5 millimetri. Provengono dal lavaggio dei tessuti sintetici, dai campi d’erba sintetica, dal consumo degli pneumatici sulle strade, dall’uso delle vernici, dai processi di lavorazione delle plastiche e anche dai prodotti per la cura del corpo. Si stima che ogni anno circa 42.000 tonnellate di microplastiche finiscano nell’ambiente quando si utilizzano prodotti che le contengono!


Secondo l’Unione Internazionale per la conservazione della natura, le micro e nanoplastiche rappresentano il 6% di tutta la plastica che c’è nel mare e possono essere ingerite dai pesci e dagli animali marini. Ma non si trovano soltanto lì, sono dappertutto: anche sulla neve ad alta quota, nei ghiacci artici, nell’aria, nelle verdure dell’orto e persino dentro di noi, nel nostro sangue. Di quest’ultimo è stato scoperto che le particelle di microplastiche possono viaggiare all’interno del corpo e possono depositarsi negli organi. L’impatto sulla salute è ancora sconosciuto, quello che si sa è che le microplastiche causano danni alle cellule umane. Gli scienziati hanno analizzato campioni di sangue di 22 donatori anonimi, tutti adulti sani, e hanno trovato particelle di plastica in 17 di loro. La metà dei campioni conteneva plastica PET, che è comunemente usata nelle bottiglie delle bevande.
Dati che non dovrebbero stupirci in quanto la maggior parte delle microplastiche che si trovano negli oceani vengono però rilasciate da oggetti di plastica abbandonati nell’ambiente e da materiale usato per la pesca. Queste prendono il nome di microplastiche secondarie. Entrano in contatto con l’uomo per inalazione e attraverso l’alimentazione. Sono state trovate nell’acqua, nel sale, nello zucchero, nella birra e ovviamente nel pesci. Gli stessi imballaggi alimentari, per quanto tutelati da leggi specifiche, rilasciano comunque microplastiche ed è così che finiamo ad ingerirne circa cinque grammi a settimana, l’equivalente del peso di una carta di credito.


Il 90% degli uccelli marini ha nello stomaco dei frammenti di plastica. Ma tutti gli animali marini ingeriscono plastica con conseguenze letali come blocchi intestinali, ulcere, necrosi, perforazioni e lesioni. In alcuni casi in maniera accidentale, semplicemente si nutrono di prede che a loro volta hanno assorbito microplastiche, altre volte invece la ingeriscono intenzionalmente perché l’odore della plastica dispersa in mare possiede il medesimo odore delle prede degli uccelli marini, cioè l’odore di zolfo. Colonizzata da alghe e batteri, di cui si nutre il krill, che a sua volta è il cibo preferito degli uccelli, la plastica finisce per emettere un aroma invitante per albatros e procellarie, che utilizzano l’olfatto per scegliere il cibo venendo così ingannati. Stessa cosa accade per i pesci. Mentre la plastica “pulita”, rimasta per un tempo non ancora sufficiente in mare non avendone assorbito l’odore, viene evitata facilmente, la plastica che permane in mare per diverso tempo viene colonizzata da diversi organismi, batteri alghe, spugne, insetti, crostacei e molluschi, il cui odore attira i predatori.
La tartaruga marina oltre alla trappola olfattiva subisce anche un inganno di tipo visivo, i sacchetti di plastica assomigliano molto alle meduse di cui si nutre.
Riciclare la plastica non è la soluzione al problema!
Nel 2050 si stima che il peso della plastica nei mari sarà superiore a quello delle creature marine.
Per anni ci è stato detto che liberarsi dalla plastica è semplice: basta riciclare e già molte persone infatti sono attente a separare e pulire la plastica prima di buttarla via. Ma purtroppo riciclare non è la soluzione, visto che la maggior parte di tutto quello che viene gettato nel cassonetto non è riciclabile.
Inoltre il processo di riciclo è costoso, utilizza tantissime risorse e i materiali ottenuti sono di volta in volta più scadenti. La vera soluzione è diminuire o azzerare il consumo di plastica, prediligendo acquisti sfusi o imballi di vetro, alluminio o carta.
La plastica non è l’unico nemico degli Oceani, anche alcune creme solari che utilizziamo sono dannose per l’ambiente marino.